La radice spirituale

Il nostro ordine spirituale non prevede la contemplazione religiosa del corpo sacro femminile.

Il corpo della bambina non è offerto alla contemplazione sacra come quello del bambin Gesù.

L’icona della Dea Madre non è offerta alla contemplazione religiosa come quella del Dio Padre.

La Creatrice manca al fianco del Creatore nel nostro immaginario spirituale.

Il nostro ordine sacro si declina solo al maschile : padre figlio e spirito santo.

Questa condizione spirituale nega alle donne la possibilità di contemplarsi nella propria sacralità e nella propria divinità, anzi le obbliga a riversare sul corpo sacro maschile tutta la potenza spirituale femminile. Con conseguenze anche letali. Perché il genocidio femminile, il femminicidio, non è che l’esito di due azioni combinate: la scomparsa del sacro femminile che impedisce alle donne di tutelare la propria inviolabilità e il potenziamento del senso sacro maschile che impedisce alle donne di accorgersi che chi le viola non merita la propria compassione, la propria pena, ma una semplice reazione naturale.

La radice simbolica

Stesso destino tocca al corpo femminile nell’accesso all’ordine culturale.

Quando una bambina lascia il simbolico della madre per entrare, in età scolare, nel simbolico del padre perde molto presto, già dopo i 6, 7 anni la coscienza di sé.

La sua formazione sarà di genere maschile e a questa si uniformerà senza neanche accorgersene, facendo sue le passioni romantiche ed eroiche degli uomini, imparando a nominarsi al maschile, vestendo persino abiti maschili e imparando a comportarsi e a ragionare proprio come fanno gli uomini.

Da qui alla pretesa di parità il passo sarà breve.

Una volta divenuta una donna-uomo, una uoma, non potrà che rivendicarne gli stessi diritti e privilegi.

E’ questo il destino fatale che colpisce la gran parte delle donne dimentiche di sé.

A meno che qualcosa, una malattia, una perdita dolorosa, non creano una frattura, una ferita, una crepa nell’armatura di ferro che costringe il corpo femminile in una morsa letale ed inizia a fluire la linfa vitale e rigeneratrice del corpo femminile.

Solo così, in condizioni di vita estreme, una donna inizia a riappropriarsi di sé, a seguire il proprio istinto, a fidarsi delle proprie intuizioni.

Solo allora una donna diviene madre di sé e mette al mondo se stessa.

Ciò che lei è profondamente viene fuori da quella ferita fisica o spirituale.

Un destino fatale

Rompere l’ordine costituito non va da sé. Non è indolore.

Una bambina impiega tutta la sua infanzia e la sua adolescenza per divenire la donna che diviene, capace di stare nel mondo degli uomini alle loro regole, alle loro leggi, al loro spirito.

La sua formazione quasi sempre ha avuto inizio in una famiglia patriarcale, in cui la madre si è resa agente dell’ordine dato. E’ proseguita nella scuola e nell’accademia. E’ cresciuta nella frequentazione dei riti religiosi, dal battesimo, alla prima comunione, dalla cresima fino al matrimonio.

Il suo corpo viaggia lungo binari prestabiliti.

Dopo la sua formazione civile e religiosa, in casa e fuori casa, sposerà l’uomo del cuore e gli darà dei figli, facendosi nutrice dell’uno e degli altri.

La sua distanza da sé sarà diventata incolmabile.

La vita le apparirà come una grande messinscena in cui avrà più successo chi recita meglio la sua parte.

Una costruzione instabile

Un ordine della vita così ben strutturato non può saltare da un momento all’altro. Niente può mettere in crisi il suo edificio. La costruzione su cui si è edificata per oltre trent’anni ha impegnato tutte le sue energie e corrisponde ormai al suo ideale di sé.

Lei è ormai agente a sua volta dell’ordine dell’altro e lo sostiene e puntella con tutte le sue forze.

Niente dunque può minare quelle fondamenta. Lei sarà la prima a rinforzarle, nella vita privata e pubblica.

Ne va della sua vita. Lei sa, senza sapere di saperlo, che il suo equilibrio poggia su una struttura instabile e che, se cede, può portarla alla rovina.

Può farle perdere l’equilibrio.

Da qui la forza con cui si tiene attaccata al suo edificio immaginario.

Sì, perché ormai vive di fantasie.

Si rifugia in un mondo fantastico che procede parallelo al mondo reale.

Spesso senza incontrarlo mai.

La vita prende il carattere che la pubblicità intercetta: la vita fiabesca del mulino bianco.

La porta stretta della vita

L’uscita da questa fiction che è la vita di una donna avviene per caso.

Niente la informa che la via intrapresa è irreale.

Se non il corpo.

A volte è un cedimento, a cui segue uno scricchiolio, a volte una folata di vento violenta che fa crollare l’edificio di carta su cui si è edificata.

Qualcosa che crei un taglio, una ferita e dia una spallata al castello di sabbia.

E improvvisamente quella donna finisce a terra.

Finalmente.

Sì, solo così una donna atterra sul suo corpo.

Appare come un deserto, una terra nuda, senza luce né vita.

Una terra ancora vergine da cui spunta una sola traccia di vita.

La sua radice.

Quella bambina che aveva abbandonato, rinnegato e persa.

Ancora nuda, ancora viva, malgrado tutta l’opera di cancellazione.

Le potenze della rimozione l’avevano preservata dalla fine certa.

La vergine doppia

E’ l’alba.

L’alba del risveglio.

La luce così appare.

La prima luce della nuova vita.

Una vita a due.

La vita che sorge dall’abbraccio delle due: la Lei che non ha potuto essere, la bambina sacra, e la Lei che ha dovuto imparare ad essere.

Due donne in una. La donna adulta e la donna ancora piccola.

Entrambe vergini, l’una per origine, l’altra per spoliazione.

E’ dal loro intimo contatto che il corpo riprende a vivere della sua linfa.

Come un albero che, perso l’innesto su un tronco improprio, torna a veder fluire la sua linfa e a crescere in profondità, estendendo le sue radici, e in altezza, elevando l’apice dello sguardo ed estendendolo a tutto l’orizzonte.

l’opera creatrice

E’ per questa via estrema che una donna si riappropria di sé.

E prende coscienza della potenza divina e creatrice del Corpo femminile.

Da lì in poi la sua vita diviene reale.

Cammina sulle sue gambe, guarda con i suoi occhi, parla con le sue parole, ragiona con la sua testa, pensa con la sua logica.

Tutte le funzioni sono risanate.

Con il solo svantaggio che la vita riparte da zero.

Dalla costruzione del linguaggio.

La gran parte delle donne non ha mai potuto vivere con qualcuno l’esperienza di essere bambina. La bimba che vive in ogni donna non ha mai trovato lo spazio il luogo e il tempo per apparire, una madre a cui affidarsi fiduciosamente per trovare principio e forza, una grandezza femminile a cui ispirarsi che non fosse semplicemente la grandezza oblativa materna.

C’è fra le donne un bisogno diffuso di filialità che non trova risposte ma pone solo interrogativi.

Sulle spalle di ogni donna poggia il carico del mondo, per alcune il mondo è lo spazio domestico della famiglia, per altre è anche lo spazio sociale e politico che si aggiungono al primo con le stesse pretese, estraendo dal patrimonio di energia femminile sempre più risorse di intelligenza e di cura. A pochissime donne è dato il privilegio di viversi l’esperienza di essere figlia.

Sottratta prematuramente al ciclo dell’infanzia e dell’adolescenza, la donna viene educata a collaborare al governo materno e ad assumersi la responsabilità della vita che la circonda. Questo carico poggerà sulle sue spalle in maniera sempre più pesante finche alla donna non rimarrà più tempo per sé.

Il tempo femminile è quasi totalmente rivolto alle cure del mondo. Nell’esperienza femminile non c’è spazio, luogo e tempo per la cura di sé.

La filialità femminile non trova posto nel mondo perché non è contemplata la sua necessità. L’iconografia della sacra famiglia prevede la donna nelle sole vesti di madre. La figlia non è contemplata nella sua necessità, rimane per questo priva di valore e di qualsiasi carattere sacro.

La sua figura assolutamente fuori luogo rispetto alla trinità maschile padre figlio e spirito santo, non trova immagini che la contemplino.

Entro questo spazio simbolico, la filialità femminile non trova giustificazione alcuna per essere contemplata.

E’ invece nello spazio della genealogia femminile, che prevede la madre e la figlia unite da una corrente di linfa femminile, che la figlia ritrova la sua necessità. La donna riacquista il privilegio di viversi la propria filialità, non solo come spazio materiale della bisognosità, ma soprattutto per la fecondità che comporta la sua presenza in una dimensione del divenire femminile.

La filialità femminile sottratta al ciclo naturale della crescita, ma soprattutto svuotata di ogni significato superiore, si manifesta nella sua sola dimensione terrena della bisognosità. Una bisognosità querelante che non trova dignità per apparire ed esprimersi come valore femminile.

nel nome del padre

Ogni figlia, quando nasce, trova già approntato il suo futuro di donna.

Sarà moglie e madre, così come sua madre, sua nonna e tutte le donne che la circondano hanno fatto e fanno. La madre la prepara all’arte domestica, a quella maritale e materna e le insegna tutto ciò che può servirle a diventare una donna perfetta.

Questo modello di crescita che fà coincidere il divenire donna con le funzioni di moglie e di madre, più o meno intrecciato ai modelli emancipativi, rimane la formula di base del comune divenire femminile.

Un divenire del tutto appreso, piegato a fini non propri, che non lascia margini creativi e non offre altro orizzonte al processo di crescita femminile.

Il rapporto che la madre ha con la figlia, in questo modello, acquista un carattere precettivo che occulta la potenza originaria della genealogia femminile. La madre si fa strumento del volere del Padre e interrompe con la figlia quel flusso di linfa creativa che permetterebbe ad entrambe di liberare tutte le risorse e la potenza del corpo femminile.

La figlia, preparata così ad entrare nel regno del padre, diventerà, come moglie e madre, funzione essenziale del divenire dell’uomo e la cancellazione della sua potenza originaria risulterà determinante per il disegno di onnipotenza maschile.

Del suo bisogno di essere se stessa, del suo bisogno di crearsi e creare, del suo bisogno di divenire completamente secondo ciò che le è innato, liberando tutta la potenza del suo corpo, di tutti i suoi bisogni, nei precetti materni, non troverà indicazione alcuna. Dalla madre non trarrà principio forma e mezzi per poter divenire, ma soprattutto da lei non trarrà la forza e la libertà che necessita per generarsi nel nome proprio. E nel nome della Madre.

L’amore, l’ammirazione e il bisogno che legano la figlia alla madre renderanno assoluti e indiscutibili i suoi precetti, renderà assoluto il suo volere. La forza precettiva della madre modellerà il corpo vergine rendendolo funzionale al desiderio di appropriazione maschile e impedirà alla figlia di scorgere altro orizzonte che non sia un fatale destino mortale.

Ed è già qui e in questo modo che il bisogno creativo femminile viene canalizzato ed orientato verso uno spazio limitato di creazione, quello domestico e intimo dell’amore, e, comunque, verso la sola creazione dell’uomo e del figlio dell’uomo, un oggetto assoluto che finirà con l’assorbire tutte le riserve di energia che impegna il corpo femminile nello sforzo amoroso di dar vita ad un’altra vita.

Tramite questa via di sviluppo, di tutto l’orizzonte creativo viene concesso alla figlia solo lo spazio materno perchè liberi, entro i suoi confini, tutta la potenza creativa del suo corpo.

Ed è così che uno spazio, quello della generazione, che la natura appronta solo per il tempo che necessita al suo fine, diventa lo spazio unico ed esaustivo, assoluto e totalizzante, destinato all’espressione della creatività femminile.

D’altro canto, la mancanza di significazione della fecondità amorosa, del travaglio creativo che comporta l’amore che genera persone, renderà visibile e significativa la donna solo sul piano riproduttivo e la porterà ad esaurire tutta la potenza creatrice del suo corpo in uno spazio privo di significato oggettivo e di significato per sè..

Questo processo di ripiegamento del corpo femminile ai fini patriarcali lo svuota dei suoi significati originari e dei suoi fini, della sua potenza e della sua sovranità.

La figlia non troverà mai più per sè, nell’altra, quel corpo d’amore e di senso, quel corpo fecondo materno da cui generarsi, da cui prendere inizio e linfa per divenire infinitamente in un processo di continua fecondità femminile. Per cui finisce con l’affidare il suo bisogno di filialità al sogno impossibile d’essere generata dal Padre.

L’impossibilità di crescere nella fecondità della genealogia materna, blocca il processo di sviluppo del corpo femminile, che viene deviato dal suo corso naturale per essere generato dalla testa del padre, a misura dell’immaginario maschile.

Privo di generazione materna, il corpo si svuota pian piano dei suoi significati, perde la sua potenza e la sua sovranità e diviene il crogiuolo in cui prende forma la materia vivente dell’altro.

Persa la madre come origine di sè, la figlia si allontana sempre più dal suo regno per trovare, nel mondo del padre e nella forma dell’uomo, lo spazio e la forma del suo divenire. Diventerà come l’uomo la disegna o come un uomo diviene, rimuovendo da sè la coscienza dell’alto prezzo pagato dal suo corpo per omologarsi ad un genere di vita non proprio.

Privo di generazione materna il corpo femminile si scinde tra ciò che è e ciò che diviene. Tra natura e cultura.

Il suo sviluppo si orienta sulla base di due rigidi modelli : quello femminile della tradizione materna o quello maschile dell’emancipazione. In ogni caso ciò che attende la figlia è un profondo stato di alienazione da sè, un sentimento di vuoto e di insignificanza che l’accompagnerà fino alle più alte sfere della sua ascesa.

La scissione del corpo fra natura e cultura, tra ciò che è innato e ciò che viene acquisito, diventa l’origine di quello stato di perdita di sè, di quello stato di alienazione profonda che impedisce alla figlia di trovare in sè la forza e il valore, il principio per essere divenire e avvenire nel mondo in perfetta armonia con il proprio corpo.

Svuotato del suo contenuto, persa la sua sovranità, il corpo femminile diviene solo materia neutra inerte, appropriabile e mercificabile, un corpo profano fatto di sola carne.

Viene così tradito il corpo femminile e la sua cancellazione vanifica ogni possibilità di creare un ordine simbolico capace di inscriverlo nel mondo.

Separato dalla sua sorgente naturale e grazie ad un processo di costante omologazione che lo piega ai fini e ai principi del corpo maschile, il corpo femminile diviene un corpo neutro, privo di sostanza e di significato proprio.

L’omologazione del corpo femminile al corpo maschile non riguarda solo l’assimilazione del suo regno di significati o delle sue categorie comportamentali, ma diviene profonda e irriconoscibile quando riguarda l’assimilazione delle sue categorie percettive e cognitive.

Il corpo si fa neutro se la figlia assimila e fa propri i significati e i comportamenti maschili, ma soprattutto se vede pensa e ragiona con lo sguardo il pensiero e la ragione del corpo maschile.

Se una parte di questo lavoro di lenta snaturazione del corpo femminile viene approntato senza volerlo dalla madre, piegando la figlia alla sovranità del padre, il resto dell’opera viene svolta dal sistema formativo che agisce sul corpo vergine femminile cancellando il suo sistema percettivocognitivo e sostituendolo con quello proprio del corpo maschile.

E così, negata fino alle più profonde radici del suo essere, la figlia assume come proprio il principio di realtà dell’uomo.

La negazione di sè renderà facile, in seguito, il lavoro di assimilazione dei valori spirituali dell’uomo. Si metterà a tutela della sua legge, terrena e divina, e assumerà come proprie le sue categorie sociali e politiche. Trovando nel regno terreno e nel regno celeste del padre il luogo ove soddisfare il suo bisogno di trascendenza.

L’intera espressione del corpo femminile viene, così, via via cancellata dalla immissione e dalla lenta ascesa della figlia nella genealogia del padre. Ed è aderendo all’albero della vita maschile e vivendo nel regno dei suoi significati che lei impegna tutta la sua vita.

In un ordine del divenire che è sacrificale per il corpo femminile.

La via del ritorno

La figlia dunque diviene nel nome del padre via via che declina la vita femminile del suo corpo. Il suo divenire coinciderà con la cancellazione della sua impronta originaria e con la sepoltura del regno dei suoi significati sotto una coltre di silenzio che diviene sempre più spessa, finché il vuoto della rimozione rimarrà l’unico segno della sua scomparsa.

Vive così il dolore indicibile di un cammino di crescita che la porta sempre più lontano dal suo corpo, sempre più lontano dal suo regno, via via che si inoltra nel regno del padre. Questo cammino di allontanamento dal suo territorio d’origine diventerà quel processo di sdradicamento dalle sue radici che renderà sempre più grande la distanza che separa la figlia dalla madre, finchè la sua figura diventerà soltanto il simbolo, amato o odiato, del sacrificio e si ricoprirà di veli immaginari.

Il confronto con l’identità materna, infatti, porterà la figlia ad identificarsi supinamente oppure ad opporsi tenacemente alla sua immagine, cercando nella trasgressione lo spazio della sua libertà. In ogni caso l’identità della figlia non esce dai limiti di questo bipolarismo e la figura della madre si riveste di contenuti onirici o fantasmatici.

Se l’esperienza onirica del contenuto materno comporta il rischio di una identificazione assoluta, l’esperienza fantasmatica comporta, d’altro canto, il rischio di uno scollamento irreversibile da un asse di eredità femminile e dalle radici naturali del corpo femminile.

Il fantasma materno, infatti, rende inaccessibile la via del ritorno, permettendo alla figlia di cautelarsi dal rischio di sdradicarsi dalla sostanza neutra del corpo generato dal padre.

Se è il padre, come terzo, a interrompere la fecondità della genealogia femminile, piegando ai suoi fini la sovranità della madre e la fecondità della figlia, e mettendo a morte, così, la verginità e la sovranità del corpo femminile, sarà poi il fantasma materno, paradossalmente, a consolidare il radicamento della figlia nella genealogia del padre.

Solo l’eliminazione di questi due ostacoli profondi permette alla figlia di ritornare a sè e di recuperare la potenza e la sovranità perduta.

Nel nome della Madre

La scomparsa della genealogia femminile è dunque l’origine della cancellazione del corpo femminile.

Il corpo, violato nella sua verginità e nella sua sovranità, snaturato nella logica del suo comportamento, non riesce più a manifestarsi, perde la sua potenza ed entra in un ordine di miseria materiale e simbolica che occulta la sua grandezza originaria.

L’impossibilità a dar luogo ad un ordine di vita e di crescita femminile nello spazio nel tempo e nella forma prevista dalla logica lineare maschile, non solo paralizza il corpo, ma gli toglie via via tutta la sostanza dei suoi significati.

Mutilata nel corpo la figlia perde la sua potenza e rimane sovrana di un regno confinato nelle pareti domestiche e nello spazio immaginario. Si riduce, così, a cercare nel regno del padre gli scarti di un limitato potere che non risarcisce la potenza perduta.

Se la figlia recupera il corpo generando se stessa, troverà nel frutto del suo lavoro la misura della sua grandezza e ritroverà quell’immenso patrimonio occultato dai limiti creativi imposti al corpo femminile.

L’unico campanello d’allarme che giunge ad informare una donna della sofferenza del suo corpo è il sopraggiungere del disagio. Un disagio interiore profondo, sordo. La depressione e l’ansia, considerate connaturate alla vita femminile, sono il sintomo più diffuso ed evidente di un corpo che non vive la propria vita.

La necessità di ricomporsi con se stessa e di metter radici nella pienezza originaria del corpo rende essenziale per ogni donna il ritorno al luogo natio. Il corpo stesso reclama la sua nascita e quella relazione feconda con la madre necessaria al suo divenire.

La ricerca di figure femminili è il primo segno del bisogno di ritrovarsi e di crescere secondo un ordine femminile.

L’incontro con l’altra che la supera e la precede nel cammino, permette alla figlia di ricostruire simbolicamente la relazione con la madre e di prendere da questa linfa e riferimento, per dare inizio e corso al suo divenire femminile.

Il corpo riprende vita e diventa fecondo, mentre lo spazio d’amore e di senso che si inaugura con la nascita della genealogia femminile, apre l’orizzonte e permette al corpo femminile di espandersi e di elevarsi fino all’infinito del suo genere.

E’ nella sua genealogia che la donna trova lo spazio per trascendersi e creare infinitamente.

Nasce così l’albero della vita femminile che, radicato nelle proprie radici e nutrito dalla propria linfa, prende a crescere a fiorire a fruttificare.

La necessità di ricomporsi con se stessa e di metter radici nella pienezza originaria del corpo, rende essenziale per ogni donna il ritorno al luogo natio. Il corpo stesso reclama la sua nascita e quella relazione feconda con la madre necessaria al suo divenire. Un divenire che vede nel processo simultaneo di radicamento ed elevazione quel doppio movimento verso il basso e verso l’alto che costituisce la spirale creativa del corpo femminile. Un corpo che si eleva nella potenza del suo significato quanto più si radica in sè.

La figura della Madre

Il triste destino che, in questo ordine delle cose, vive la figura materna non rende giustizia alla vastità dei significati che questa figura riveste originariamente e possiede intrinsecamente.

La madre, nel suo significato superiore, è un motore armonico delle forze che creano la vita. E’ un centro di equilibrio superiore che governa la vita ricomponendo le spinte oppositive dei processi creativi e imprimendo ad esse un cammino creativo equilibrato. Le forze distruttive e costruttive dei processi creativi, dissociate e relegate nel regno del bene e del male dalla logica del padre, trovano nel suo sguardo superiore la loro sintesi e la loro armonia. Sovrana del tempo e del movimento della vita, obbedisce ai suoi ritmi e alle sue leggi per compiere i suoi fini.

Luogo di ricomposizione di ciò che viene scisso nel regno del padre, il corpo della madre da sempre si pone come un principio armonico di creazione.

La legge superiore di equilibrio e armonia a cui obbedisce il regno della Madre sopravvive in ogni donna e fa capolino ogniqualvolta sorge nella tessitura dei processi viventi una incrinatura, una pericolosa smagliatura dell’equilibrio delle forze. E’ obbedendo alla sua legge che ogni donna interviene prontamente e del tutto naturalmente a riparare l’equilibrio nel tessuto vivente familiare e sociale.

La negazione della grandezza dei valori dei principi delle leggi e delle regole che appartengono al regno dei significati della Madre, regno innato in ogni donna, impedisce alla figlia di cogliere la valenza superiore dell’agire materno e di vivere appieno l’eredità sommersa della sua figura.

La potenza creatrice della Madre, ridotta e confinata nelle riserve domestiche del regno del padre, negata nella sua sovranità dalla figlia e alla figlia, vive da tempo i suoi anni più bui. Si celebra e si consuma nel breve arco della vita materiale di ogni donna nella più profonda insignificanza miseria e solitudine. Piegata ai soli fini di ricucitura della trama di vita ordita dal padre, tarda a farsi principio sovrano di creazione.

Se la figlia, però, si libera del fantasma materno o esce dalla prigione onirica, può restituire alla madre i suoi contorni reali e riconoscere i limiti e la grandezza che le appartengono.

La sua figura diventa allora una figura reale, un luogo da cui partire alla ricerca di sè seguendo le tracce del corpo femminile.

Questa ricerca diviene possibile se la figlia si affida alla madre simbolica. A colei che, precedendola nel cammino, le permette di muoversi nel labirinto dell’esperienza confortata dalla sua luce e sostenuta dalla sua forza.

Il recupero lento e laborioso dei suoi significati originari permette al corpo di ritrovare la sua sostanza e di riempirsi dei suoi contenuti.

Questo processo che pian piano rimette in vita il corpo femminile e permette alla figlia di manifestarsi nella parola e nel pensiero inaugura lo spazio simbolico.

La figlia nasce nel nome della madre e genera secondo il suo corpo.

La figura della madre simbolica vive all’inizio le stesse vicissitudini della madre reale, poichè incarna agli occhi della figlia le sue antiche sembianze e mette in scena uno scenario ancenstrale.

La figlia, infatti, proietta il suo contenuto onirico o fantasmatico sulla figura della madre simbolica identificandosi o opponendosi tenacemente alla sua figura.

Solo il tempo, la distanza e il governo della Madre, riescono a riequilibrare le tensioni oniriche o fantasmatiche della figlia, permettendo alla genealogia femminile di raggiungere la massima potenza di espressione.

Nello spazio della genealogia femminile, però, le necessità materiali del corpo che preme per nascere e divenire, si incrociano con le necessità simboliche che chiedono di trascendere i fini materiali e soggettivi. I movimenti generativi del corpo femminile si incrociano con quelli creativi che trascendono il corpo stesso.

La fecondità del corpo

Il recupero per sè del principio creativo femminile coincide col recupero della potenza originaria del corpo femminile.

L’unico luogo concesso appieno alla manifestazione della fecondità femminile è quello della creazione dell’altro. Uno spazio creativo complesso, un territorio infinito d’amore, che dà luogo al bisogno femminile di creare. Ma il mondo entro cui una donna crea è solo quello intimo e invisibile delle relazioni, entro il quale agisce tutta la maestria della tessitura creativa. Fare l’altro è ciò che la impegna creativamente per il tempo infinito della sua vita e quasi mai rivolge il suo talento creativo verso se stessa o verso un oggetto o un mondo femminile.

Il bisogno di creare viene rivolto tutto al campo ristretto del fare persone e l’energia creativa viene convogliata verso la materia vivente dell’altro perchè si plasmi fino a raggiungere la sua forma attraverso l’opera alchemica del lavoro amoroso.

Il portato creativo che comporta la tessitura amorosa finisce con l’impegnare una donna all’infinito se l’altro diviene infinitamente.

Questo godimento creativo che si cela dietro le quinte dell’identità materna femminile fin’ora è stato indirizzato verso un prodotto di genere maschile. Ed è così che la gran parte dell’energia femminile viene impegnata per il vivere altrui e si esaurisce in questo spazio finito.

L’insignificanza simbolica della creatività amorosa impedisce alle donne di raccogliere i frutti della propria creazione, frutti che via via che maturano si distaccano inconsapevoli dal tronco che li ha generati, senza nome proprio. Questo regime creativo, privo di riscontro simbolico, esaurisce inefficacemente l’energia e il senso della vita femminile, che si consuma girando a vuoto nello spazio dimentico del genere maschile.

Ma se la creatività femminile viene stornata dall’oggetto maschile verso cui è stata orientata e viene incanalata nello spazio del genere femminile, diviene allora vitale e feconda. E la potenza del corpo femminile si manifesta.

Si mette in moto un processo di creazione continua che diffonde efficacemente l’energia femminile passandola dall’una all’altra donna in un continuo crescendo che non l’esaurisce più ma la rinnova spingendola sempre più avanti. Si rende così manifesta la fecondità del corpo femminile. Se quindi la fecondità che ogni donna possiede viene rivolta al divenire proprio, dell’altra, del genere del mondo la donna diviene e si trascende in un superamento continuo e senza sosta che dà luogo a tutta l’espressione della sua potenza.

L’albero della vita femminile

Posta la madre come origine la figlia inizia il suo divenire. Il travaglio di crescita che comporta l’esaurirsi del suo bisogno filiale, fa di lei una donna capace di parola propria. Esce dallo statuto del silenzio con cui proteggeva il regno dei suoi significati più profondi ed accede alla parola. L’esaurirsi del bisogno libera, infatti, il desiderio e la donna nasce al mondo, manifestando il suo corpo nel pensiero, in un luogo oggettivo ricco di significato proprio.

Questo divenire, che segna il passaggio dall’essere figlia all’essere donna, dallo spazio soggettivo allo spazio oggettivo, segue le regole del corpo femminile.

Il rispetto del tempo acquista un carattere fondamentale nel processo del divenire. La sua modulazione ritmica segue le alternanze di vita del corpo, che si apre o si chiude, si espande o si contrae a seconda del regime di energia che possiede. La sostanza del corpo si fluidifica nell’atto del vivere e, passando da uno stato all’altro della materia, si fa acqua, aria, terra, fuoco. Il rispetto del movimento creativo del corpo, del suo ritmo di vita, della natura della sua sostanza, permettono alla donna di coglierne il senso e di accedere all’ordine di vita del corpo femminile.

L’accesso al linguaggio del corpo illumina il suo cammino e permette allo sguardo di contemplarlo.

Corpo sguardo e pensiero si riconciliano in un senso comune e questo evento di ricomposizione dà pienezza e potenza al cammino del divenire.

La linfa femminile

Il corpo può divenire se scorre linfa creativa al suo interno.

Ma ciò che alimenta la vita naturale del corpo è una linfa d’amore, una fonte di calore e di luce che nutre e rigenera la sostanza femminile.

Le donne, che crescono senza linfa materna, sono per questo le più povere di tutti i poveri e il corpo vive in un ordine di miseria che deriva dalla mancanza assoluta di linfa d’amore femminile. Il regime di privazione e di paura a cui lo destina la vita patriarcale contrae e immiserisce la sua sostanza, impedendole di fluidificarsi. Il regime d’amore femminile diventa, allora, quello stato di necessità che permette al corpo di uscire dalla logica di sopravvivenza in cui è rifugiato e di aprirsi allo spazio della vita.

Il pensiero vivente

Il gruppo è nato nell’83 a ridosso della costituzione del Centro di Ricerca di Foggia. E da allora, ininterrottamente, si è incontrato ogni settimana, seguendo un filo conduttore che riguardava la ricerca d’identità.

Ci accomunava, all’inizio, l’appartenenza ad una cultura mediterranea che conserva tracce di una arcaica e potente cultura femminile : una grossa passione del corpo che si intreccia con un forte senso della verginità; un indigeno costume di separatismo femminile che si intreccia con un prepotente costume materno associato ad una selvatica femminilità, tracce tutte di un antico regno della Madre.

Partivamo dall’assunzione consapevole di avere radici comuni legate alla cultura mediterranea delle donne del sud.

La persistenza di modelli arcaici di potenza femminile, legati all’identità materna delle donne, ci portava ad interrogarci su ciò che si nascondeva dietro un agire femminile liquidato troppo frettolosamente come superato e anacronistico. In realtà erano sotto i nostri occhi i danni provocati dalle madri sui figli, figli lasciati eternamente in uno stato di bisognosità che impediva loro una crescita autonoma e un pieno e libero sviluppo della personalità. Madri che imponevano alle figlie un modello di asservimento all’uomo, preparandole al futuro e rigido destino di madri e mogli. La sterilità di questa pratica di maternage, del tutto evidente e introiettata dai valori culturali diffusi, non ci impediva di scorgere dietro il potere materno l’agire di una potenza primordiale delle donne, anche se piegata a finalità distruttive. Le madri rivolgevano la potenza creativa del loro maternage alla produzione di non libertà. Riproducendo la propria non libertà. Svuotate di senso dalla logica di un rigido destino femminile, impegnavano tutte le loro energie a produrre, inconsapevolemente, comportamenti di dipendenza nei figli. In realtà comportamenti di tossicodipendenza dalla necessità perenne di madre. L’analisi delle donne aveva già portato in luce il negativo del maternage, ma la forza con cui si esprime, nella nostra cultura, l’azione materna ci invitava a guardarla da un’altra prospettiva.

Siamo partite, così, dalla madre. E, senza saperlo, abbiamo iniziato il cammino partendo proprio dall’origine della nostra genealogia.

Il lavoro di destrutturazione che molte di noi avevano già fatto sull’uomo, ora ripartiva da lei. Era necessario rivisitare il luogo d’origine, quell’antica relazione con la madre, per dare inizio a noi stesse e al nostro codice di significati. E questa necessità ci portava a compiere un profondo lavoro di decodificazione dell’esperienza soggettiva rispetto alla relazione con lei, che spesso si intrecciava, si accavallava e si sommava alla relazione col padre, con l’uomo. Ciò che stavamo esplorando era quel vasto territorio d’amore e di senso segnato da queste relazioni, tutte simili, per qualche verso, tra loro, perchè, in realtà, riguardavano la nostra esperienza nella genealogia patriarcale. L’analisi della figura materna ci rendeva evidente che l’effetto mortificante del suo maternage non era intrinseco ma derivava dal suo ripiegamento ai fini patriarcali. Non era in sè il difetto, ma nei fini in cui era incanalato.

Nel confronto speculare con lei, abbiamo nominato gli elementi di libertà che rivelava il nostro agire materno, non solo rispetto al figlio, ma più in generale, rispetto all’uomo e al mondo delle relazioni. Ma soprattutto, senza averlo previsto, abbiamo cominciato fra noi una pratica di maternità simbolica in cui l’affidamento reciproco produceva libertà e forza.

Si era stabilita tra noi una regola, posta all’inizio solo come un apriori, solo come una necessità, quella di partire dalla nostra innocenza. Non sapevamo allora il perchè di questa necessità, alla cui regola ci riconducevamo continuamente, ma oggi la leggiamo come un bisogno di trascendere il piano della miseria materiale dell’esperienza, per poter rintracciare simbolicamente l’origine del nostro senso.

Ci scambiavamo le nostre verità, verità indicibili nell’ordine di senso patriarcale. Esploravamo l’esperienza a partire dal nostro sguardo, restituendogli forza e valore. Allo srotolarsi narrativo c’era chi dava un ordine di significato superiore, collocando le verità su un piano che restituiva loro tutta la pienezza di senso. La presenza di questa figura, riconosciuta come guida e madre a cui affidarsi, serviva a tracciare il cammino della ricerca, che guidava nominando per prima le sue verità. Lo scandalo delle verità. Spesso indicibili al nostro stesso ascolto per il rischio che comportavano di ricaduta in un ordine di miseria di senso.

L’elevazione del senso da un ordine di miseria soggettiva ad un ordine oggettivo superiore permetteva di trasferire le nostre verità entro uno spazio di senso unico e complessivo che raccoglieva le ricchezze soggettive. Al termine del nostro primo lavoro, alcune differenze tra noi si sono rivelate inconciliabili. Sembrava arrivato il momento giusto per comunicare i primi risultati della ricerca ed abbiamo progettato un ciclo di seminari, dal titolo “L’eresia”. Questa esperienza ha rivelato d’improvviso ciò che già si avvertiva durante il lavoro. C’era fra noi chi rifiutava di trascendere la relazione conflittuale con la madre e faceva di questo conflitto l’origine e il fine del suo pensiero.

L’evidente inconciliabilità di questo orientamento con quello che le altre esprimevano ha reso necessaria una verifica della progettualità che fino a quel punto era sembrata univoca. Ne è nato un conflitto che pian piano si è circoscritto alla figura della madre simbolica. Dietro le parole e i gesti stava maturando un processo interiore difficile da nominare. Eravamo nel passaggio da uno stato all’altro delle cose, in un processo che in seguito ci sarebbe apparso come un rito di morte e rinascita. Era messa a morte una forma primaria delle nostre relazioni che era stata necessaria per collocare i corpi nella genealogia femminile. La pratica di maternità era giunta a termine e la relazione madre figlia si era spostata dall’esterno all’interno di ognuna di noi, come dinamica interiore che rendeva fecondo il corpo di ognuna. Stavamo, quindi, cambiando pelle e passando da uno stato d’infanzia della genealogia femminile ad uno stato superiore. La figura della madre, resa discutibile dal bisogno di crescita delle figlie e da chi si rifiutava di elevarsi entro la genealogia femminile, è entrata in un processo di depotenziamento, d’altronde necessario per il passaggio da una prima forma di verticalità tra donne ad una forma superiore. Naturalmente la dolorosità del conflitto allentava sempre più lo spazio simbiotico che si era formato tra noi e permetteva ad ognuna di liberare e misurare la forza raggiunta. Questo travaglio di crescita ha permesso quindi alle figure simboliche della madre e delle figlie di riequilibrare la relazione, permettendo alla madre di recuperare la propria filialità e alle figlie di recuperare la propria maternità.

La scoperta della reciprocità delle figure ha dato pian piano nuova linfa alle nostre relazioni che ora venivano segnate dalla pienezza della maturità raggiunta. Confidando nella regia del corpo e sostenute dall’intervento provvidenziale di una leva femminile superiore ed esterna siamo riuscite a superare il guado e a raggiungere la riva opposta. Qui ci siamo ritrovate quasi tutte, mancava solo chi si era fermata davanti al fantasma materno e tornava indietro a consolidare la sua appartenenza al regno del neutro.

Chi radica il suo corpo nel neutro mostra una forza di opposizione alla genealogia femminile che è pari al rischio che corre di sdradicarsi dall’albero paterno. Il corpo stesso fatica a ricomporsi e ad alimentarsi della propria linfa.

Era dunque giunto a termine il cammino nel regno della madre e bussava alle porte lo splendore della figlia. Era nel suo regno che ci stavamo incamminando dopo aver raggiunto la riva opposta del fiume che ci aveva disperse. Ci sentivamo di esplorare con un nuovo sguardo questa figura che fra noi era giunta a maturità e rivelava ai nostri occhi un ordine di grandezza del tutto invisibile nello spazio della bisognosità. Un ordine di grandezza superiore che potevamo scorgere ora che era diventato colmo il suo bisogno di madre. Questa figura insignificante sul piano simbolico, perchè violata e profanata dall’ordine patriarcale, mostrava nell’ordine femminile tutta la sua significatività. Anche se ci sembrava di andare avanti nel nostro cammino, in realtà ritornavamo sempre più in dietro fino alla fonte della nostra origine. Prima di esser madri eravamo state figlie. Ed ora potevamo attraversare lo spazio della figlia per renderlo simbolico.

Se quella della madre è la prima porta stretta che introduce al regno femminile, quella della figlia è la porta strettissima da attraversare. Noi che eravamo ignare circa la strada da percorrere, riuscivamo a trovarla solo grazie al corpo. Ed è al corpo che abbiamo ripreso ad affidarci finchè la potenza della sua guida è giunta alla nostra coscienza ed è stata nominata.

Il corpo, a cui da sempre avevamo dato autorità, ci andava rivelando il cammino da percorrere, ci orientava nel cammino della conoscenza.

La nostra ricerca non era affidata alla ragione della mente ma alla ragione del corpo. Ed a questa nuova ragione abbiamo dato un significato superiore.

Il corpo si manifestava e ci conduceva nella conoscenza attraverso i suoi riti. E così abbiamo scoperto la ragione del suo agire.

Il corpo dunque si manifesta nello spazio complesso del rito e parla attraverso i suoi segni. La cancellazione dei riti e dei segni del corpo femminile sono l’origine profonda della sua scomparsa. L’accesso al mistero del corpo femminile avviene nello spazio della contemplazione. La contemplazione della sua morte permette la sua rinascita.

Ed è proprio nella figlia che il corpo viene violato profanato e smembrato fino alla sua scomparsa. Ed è lì che rinasce.

La gestione del conflitto, dunque, era stata affidata, come tutto il resto del lavoro, alla regia del corpo. Il corpo era sovrano nel nostro lavoro. E ci mostrava che anche il conflitto, se vissuto fuori dalla logica patriarcale del dominio che vuole ad ogni costo vincitori e vinti, se vissuto nell’ordine del divenire, nel rispetto delle regole della vita che chiede la morte per la propria rinascita, appartiene ad un ordine di passaggio, di trasformazione del corpo femminile.

L’armonia ritrovata ci ha permesso di godere i nuovi frutti della nostra pratica. Ci eravamo collocate in uno spazio di trascendenza che metteva in luce l’ordine superiore del corpo. Un ordine verso cui da sempre eravamo obbedienti e che ora acquistava carattere sacro. Il corpo, attraverso i suoi riti e le sue figure, parlava il suo linguaggio ed era a noi che toccava di registrarlo simbolicamente. La lunga pratica di maternage fatta al nostro interno ci aveva rese più libere dal bisogno filiale e questo ci permetteva di uscire dalla sua prigione e di allontanarci dal quello stato di urgenza del corpo che ci costringeva a subirlo, a soffrirlo e, quindi, a sfuggirlo più che a seguirlo con lo sguardo. Il superamento del bisogno ci dava, ora, la libertà di trascenderlo e di contemplarlo in tutta la sua grandezza.

Se la distanza rende miopi, l’altezza approfondisce ed eleva lo sguardo, permettendogli di contemplare il suo oggetto senza ferirsi e entro un campo visivo illimitato. Per cui via via che ci innalzavamo con lo sguardo, il corpo perdeva il suo carattere contingente e acquistava un carattere simbolico. Assumeva ai nostri occhi il significato di un luogo sacro, un luogo inviolabile che custodisce il significato profondo della vita femminile. E’ stato fulminante accorgerci che da sempre ci eravamo affidate al corpo e che ad esso avevamo dato autorità. Traendo da esso la nostra autorità. Il corpo con le sue movenze ci aveva introdotte nel suo regno, nel suo ordine di vita e di senso, guidandoci nel cammino di costruzione delle nostre relazioni e nel cammino delle sue verità. Abbiamo così scoperto l’anima del corpo femminile. Riguardando a ritroso il nostro cammino, da questo nuovo piano, ci è parso essenziale il lavoro di lutto che ha connotato tutta la fase di esplorazione dolorosa dell’esperienza. Ci pare oggi un rito necessario alla rinascita del corpo femminile.

Ciò che stiamo guadagnando dal nostro lavoro è che oltre l’ordine simbolico c’è un ordine sacro che appartiene al corpo femminile.

La scoperta della scomparsa dell’ordine sacro del corpo femminile ha fatto apparire in piena luce la logica di violazione e mercificazione della figlia.

E’ sulla figlia, sulla vergine, sul mistero del corpo femminile che oggi si orienta il nostro sguardo.

Sovranità e Regno

La nascita della genealogia femminile ha a che fare con uno spostamento simbolico : la figlia esce dal regno del padre e si colloca in uno spazio altro, dapprima vuoto, che pian piano si riempie della sua forma e della sua sostanza, in cui la sua sovranità diventa assoluta. Questo spazio, mentale o materiale, è l’inizio del suo regno.

Un regno ancora limitato allo spazio immaginario o allo spazio separato delle donne in cui, però, la sua sovranità è assoluta.

Assoluto è il suo sguardo, la sua lingua, i suoi gesti, assoluti sono i riti le regole i principi le leggi che il suo corpo manifesta. Tutto ciò che si svolge in questo luogo prende origine da lei. E circola intorno al suo desiderio. E’ qui che il suo desiderio di generarsi si incrocia con il desiderio di creare, di dar forma a un mondo che sia espressione del suo regno interiore.

Se, da una parte, il corpo ha lavorato alla costruzione di genealogia, dall’altra questo lavoro si è incrociato con il lavoro di creazione di mondo. La tessitura amorosa, verticale, che creava corpo, si è incrociata con la tessitura di relazioni, orizzontale, che creava mondo. Un mondo ancora ineffabile che si sosteneva per il fatto di essere un insieme di donne, un popolo di donne.

Il popolo delle donne, disperso e ridotto in cattività nelle riserve dell’uomo, umiliato e piegato nella sua sovranità, vive nella selvatichezza del costume della sopravvivenza. Non ha regole di vita, non ha regole di morte. I riti di vita e di morte del corpo femminile non fanno costume nel popolo femminile. Le leggi del suo regno non sono le leggi del suo mondo. Il popolo femminile è senza regno e senza sovranità. La vita femminile regna nella selvatichezza del corpo femminile.

Il bisogno di dare al mondo un segno conforme al corpo femminile fin’ora ci ha orientate verso la creazione di sostanza femminile. Ma si affaccia il bisogno superiore di dare un ordine alla vita che contempli l’ordine di senso del corpo femminile. Generare l’ordine delle cose è dare forma al mondo. Un mondo in cui diventi manifesto e sovrano l’ordine di vita femminile.

Perchè l’albero della vita femminile viva e si riproduca è necessario un habitat conforme alla sua specie.

Questo lavoro di esplorazione deriva da una pratica di verbalizzazione continua della nostra esperienza. Accompagnata dallo studio di testi di psicologia, filosofia, scienze e saggistica varia. Ma sono stati per noi fonte imprescindibile e linfa vitale il lavoro di ricerca di Luce Irigaray, della Libreria delle donne di MIlano, della Comunità filosofica di Diotima, del Virginia Woolf di Roma, della cooperativa filosofica Transizione di Napoli, del Centro documentazione di Firenze, del Centro di Mestre, del gruppo le Amanti e di tutte le donne che in questi anni hanno lavorato ad un sapere di genere ed hanno costruito genealogie femminili.

Ma il nostro lavoro non avrebbe generato se non avessimo dato vita ad una pratica di fecondità femminile. Una fecondità che si è avvantaggiata della circolarità e della verticalità delle nostre relazioni e che mostra di poter creare discendenza e trascendenza femminile.

20 luglio 1989

Mariagrazia Napolitano