Ho pochi ricordi della mia infanzia, di mia madre ricordo solo la sua grande gioia di vivere e poi ricordo San Giovanni il mio luogo d’origine, un paese del Gargano dove ho vissuto per molti anni lunghi periodi di tempo, ospite con mio fratello di una zia, una donna imponente madre di molti figli, che ci nutriva di autentico amore materno.
Ed è lì che ho visto per la prima volta le donne sedute sull’uscio.
Sovrane, potenti, sedevano davanti all’uscio di casa come Signore del Luogo e delimitavano con la loro presenza la linea di un confine invalicabile. Dietro quell’uscio si nascondeva un mondo che mi era familiare, il mondo in cui regnano sovrani il tempo i princìpi e le leggi a cui ubbidisce la vita femminile.
La vita stessa del paese si svolgeva nel rispetto di quei valori cari alla madre, come l’amore e l’amicizia, che consentono di costruire una vita civile armonica.
Da quell’esperienza di vita all’interno della cultura materna ho tratto da donna la forza e la certezza della mia esistenza.
Le donne sedute sull’uscio le ho riviste poi nelle foto di copertina dei paesi del sud esibite come un fenomeno del folklore locale. Ma per la mia memoria rappresentano il simbolo della signoria, l’archetipo stesso della sovranità femminile, il sud di tutte le donne.
Quella stessa signoria l’ho riconosciuta nel tempo in mia madre e poi l’ho ritrovata in me, mutata di segno e di forza, come pretesa di signoria sul mondo. Questa pretesa si è tradotta prima nella creazione di un luogo materno in cui essere sovrane ed oggi si traduce nella pretesa che il mondo diventi il luogo di esercizio della sovranità femminile.
La società meridionale ha, dunque, all’origine una cultura materna che ha definito le regole e i valori della sua vita civile. L’amore, l’amicizia, la generosità, l’ospitalità, la solidarietà, il valore della vita, dei sentimenti, delle passioni, il rispetto della dignità, di una coesistenza civile armonica sono i princìpi cari alla madre che hanno definito il costume di un intera società. La cultura materna vive ancora integra in alcuni paesi del sud, ma ha perso nelle città la sua sovranità e la sua autorità. La logica d’amore e d’armonia che le appartiene è sempre più sostituita dalla logica dell’odio e del profitto di un patriarcato insolente e arrogante che viola la vita e la dignità degli stessi uomini e non paga il suo debito alla madre. La logica che lo sottende è quella di chi minaccia e offre protezione assieme, di chi fa della famiglia la leva del suo potere. La cultura mafiosa è cresciuta là dove si è spenta l’autorità della cultura materna.
Per contrastare le spinte che provengono dal profondo sud e dal profondo nord e che minacciano la sua stessa identità, la società meridionale deve radicarsi oggi nella sua tradizione più nobile, nella sua tradizione materna.
L’assenza di un pensiero che articoli la cultura materna nelle categorie del diritto della filosofia e della scienza che le appartengono fa sì che i comportamenti femminili siano scambiati per semplice maternage. Il pensiero che invece li sostiene è un pensiero di origine materna che non ha statuto finchè alla madre non si da lo statuto di Soggetto, un soggetto di ordine differente. La forza della cultura materna in cui si radica la vita delle donne del sud ha evitato loro di compiere gli errori propri dell’emancipazione. L’emancipazione ha significato per molte solo il diritto di accesso ad uno spazio più grande di espressione di sè. Le donne che hanno scelto il lavoro, hanno scelto in gran parte di lavorare nella scuola. Molti direbbero perchè concede loro più tempo per la famiglia, e questo è anche vero, ma più realisticamente, a mio avviso, perchè il lavoro docente è quello che più risponde ad una naturale inclinazione femminile. Maestre di vita, per antica scienza materna, è stato naturale per le donne del sud il passaggio da un’economia riproduttiva* ad un’economia produttiva che ne rappresenta il continuum. Crescere figli richiede la stessa scienza che fare persone e le donne hanno cercato nel proprio pensiero le risposte pedagogiche alle domande che la crescita umana pone. I corsi di aggiornamento, le sperimentazioni, sono parsi inadeguati a chi sperimenta giorno per giorno sui propri figli, sui propri studenti le risposte più adeguate alle necessità della crescita. Spesso le donne, strette nella miopia dei programmi di stato, hanno dovuto fare salti mortali per incrociare le necessità reali con le necessità ideali. Ideali perchè poste da un ordine educativo che non ha l’ampiezza e l’acutezza visiva che lo sguardo materno ha. La scuola rappresenta, per queste sue contraddizioni, la zona di frontiera in cui l’idealismo di marca patriarcale si scontra con il pragmatismo proprio della cultura materna che le donne immettono nella crescita umana.
Questa crescita soffre del limite d’essere vista come neutra, uguale per tutti, maschi e femmine. Non è facile togliere dalle braccia della madre quel figlio divino che Dio le ha posto. La rivoluzione simbolica che vuole fra le braccia della madre una figlia altrettanto divina è ancora tutta da venire. E’ una rivoluzione che si compie a volte naturalmente, senza spargimento di sangue, al massimo con qualche spargimento di lacrime, quando una donna arriva al limite della sua resistenza e decide di prendersi in braccio. E’ questa immagine di maternità femminile che si forma nella mente a rimettere in ordine il simbolo che nega l’esistenza femminile. E’ da lì che a volte ha inizio la libertà femminile.
La maternità è, dunque, un’esperienza simbolica oltre che reale, che risente di due modelli archetipici fondanti per lo sviluppo della psiche femminile : un modello pagano che richiama alla mente la coppia divina di Demetra e Kore e un modello cristiano che richiama alla mente la coppia divina della Madonna e Cristo.
Nella cultura delle donne del sud questi due modelli convivono tacitamente.
Ci sono donne cresciute nell’attenzione assoluta di una maternità pagana e donne cresciute nella disattenzione propria di una maternità cristiana. L’esito di questi due percorsi di crescita porta a donne certe della propria esistenza e a donne incerte di sè che crescono mutuando dall’uomo la certezza di esistere. Nel modello pagano l’uomo, il padre, si presenta come una figura a cui non è riservata alcuna attenzione. Nel modello cristiano l’uomo si presenta alla mente femminile con un carattere assoluto, ma solo in veste di figlio, anche quando è padre. Gli uomini della mafia, divinizzati dall’amore materno delle donne, crescono in un regime di onnipotenza che alimenta la loro volontà di potenza. L’assenza di autorità della madre, del suo statuto di soggetto, dell’ordine simbolico e culturale che le appartengono hanno consentito la sua riduzione a funzione della vita altrui con la conseguenza inevitabile della crescita di onnipotenza del figlio o della figlia, a seconda dei modelli simbolici di riferimento. L’esperienza fatta nel Centro di Foggia, attraverso una pratica di ricerca fondata sui rapporti tra donne, ha permesso di verificare questo stato delle cose. Ma ha consentito anche di verificare che ciò che inverte il corso degli eventi è l’amore femminile della madre e la necessità della sua autorità.
Foggia 16 gennaio 1993
Maria Grazia Napolitano
* Nella Ginatempo : Donne del Sud, n° 96 di INCHIESTA
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