Fu questo il comandamento che mi diedi quando divenni madre.

Unico e assoluto.

Sacro come i dieci comandamenti.

Quel figlio era un Bene che la Vita mi aveva donato. Ed io non sapevo che fare di quel Bene così grande.

Lo consacrai a Lei. A Madre Natura. Ero certa che nel suo seno avrebbe trovato di che nutrirsi per divenire semplicemente ciò che era.

A me non era riuscito e questo mi rendeva fallibile. Rischiavo di fare di lui il mio doppio. Di farlo divenire come io volevo.

No, non era questo che io volevo per il suo bene. Come potevo sapere ciò che serviva alla sua singolarità? Come potevo nutrirlo di valori e regole se avevo appena scoperto che potevano risultare letali?

Avevo 27 anni e la gran parte di quegli anni li avevo passati ad addomesticare il mio essere fino a cancellarne le tracce. Con il risultato di non essere più ciò che evidentemente ero all’origine e di non essere divenuta mai come mi volevano. In questa forbice fra passato e presente, fra possibile e impossibile ero divenuta niente.

E non era a questo destino che volevo destinarlo.

Mia madre si era orientata all’opposto. Lei sapeva cosa fare di me: una donna forte e scaltra. Il contrario di me

Era questo il bene a cui voleva destinare la sua prima figlia. La più attesa, la più adorata, quella che il suo immaginario voleva regina.

Lei era una madre terrena. Che sapeva cosa conta in questo mondo. La ricchezza materiale, che mette al riparo da ogni sventura. E per quella figlia tanto amata lei voleva il massimo. Che divenisse regina. Del regno del Padre.

Si lei era devota al padre, un uomo mite e buono che mai avrebbe preteso che la mia vita fosse posta sul suo altare. Come mite e buono era mio padre, un uomo che mi cresceva nel rispetto della libertà e mi nutriva della sua stima.

Non era sul loro altare che mia madre poneva la vita di sua figlia. Era all’ordine sacro del Padre che lei l’aveva consacrata. Anzi alla Madonna, la madre di Dio. Che nel suo immaginario occupava il vertice divino, perché del Figlio lei era la Madre. E, dunque, veniva prima, come è naturale che sia.

Fu questo il suo grande inganno. Un inganno che portò allo strabismo di venere non solo lei, ma la gran parte delle donne credenti. Nessuna si era accorta che nel grembo della Madonna il patriarcato non aveva posto la figlia, ma il figlio.

La figlia era l’impensato dell’ordine sacro del Padre.

Un ordine sacro a cui ancora oggi ubbidisce quando mi chiede dove è il padrone di casa, quando arriva, hai preparato la tavola. O quando si chiede allarmata: ma da dove sei uscita? Perché non mi riconosce. Non corrispondo a ciò che immaginava io diventassi. E soprattutto mi disconosce perché non sto alle regole del patriarcato. Le uniche regole che per lei rimangono sacre

Si, io ero sua. Ero la materia vivente di cui si nutriva il suo potere materno. Ero nata per divenire il bastone della sua vecchiaia. E se no, perché mi aveva messa al mondo? Questi i suoi credo. Ed altri ancora. Gli stessi che nutrono la mente delle madri che generano in funzione di sé.

Madri bambine.

Mia madre non era una madre. L’ho scoperto nel tempo. Lei era una madre bambina, come dice Mariano Loiacono che, come me e come tanti, ha sofferto sulla sua pelle l’assenza di una Madre. Una madre capace di entrare in connessione con la Vita per attingere ai suoi saperi la sapienza necessaria. Lui di quel sapere era privo, come tanti, e ha dovuto generarlo. Attingendo dal suo corpo il sapere necessario a rimetterlo in vita. Facendo del suo corpo un utero psichè, come lui lo chiamava. Si mise al mondo restituendo alla Vita la Madre di cui la vita ci dota e il patriarcato ci toglie. Lui, rivoluzionario per necessità, negli stessi anni in cui io mettevo sottosopra l’ordine patriarcale materno. Rivoltandomi in me. Entrambi devoti e riconoscenti ad un ordine naturale che ci aveva rimessi al mondo.

Fra i danni recati dal patriarcato alle donne non c’è mai traccia di questo danno superiore. Il disordine portato alla Vita. All’evoluzione ontologica. E al divenire femminile.

Donne divenute madri senza passare mai per un divenire prima donne.

Donne rimaste dunque bambine sul piano ontologico ricompensate dal patriarcato con un di più di potere. Il potere materno. Un potere di vita e di morte su maschi e femmine.

Un potere materno che, secondo J. Hilmann ha condannato gli uomini alla dimensione eterna del puer. E le donne? Il destino delle donne non è stato mai a tema neanche per lui. Rimangono l’impensato. Ma dal loro destino dipende l’evoluzione della Vita sulla Terra.

E’ l’evoluzione della Vita che si è arrestata sulla Terra. A causa di uomini bambini che pretendono di saperne di più della Vita stessa. A causa di madri bambine che li generano.

Madri bambine che orientano lo sviluppo della vita seguendo le direttive del proprio immaginario. Senza ubbidire alle leggi profonde con cui la Vita ci orienta dall’interno.

Un potere materno che parte dal credo che un figlio sia un bene proprio di cui disporre a proprio piacimento.